Hebron: mercoledì 15 ottobre
Abbiamo dormito nella bella foresteria del freedom theatre, il progetto ci ha lasciato a bocca aperta per l’organizzazione, la cura degli spazi, il carisma e la fiducia del fondatore Juliano e dei suoi collaboratori. La sera ci siamo viste “Arna and her children”, il film girato da Juliano sulla storia di sua madre e dei bambini che con lei avevano fatto teatro nello stone thaetre al campo profughi di Jenin. Bambini che hanno vissuto l’occupazione, le case distrutte da un giorno all’altro, la rabbia, la desolazione, tra loro l’amicizia e la gioia e lo stupore di incontrare una donna di origina ebraica che lavorava con loro e per loro. Bambini diventati giovani adulti costretti a resistere con o senza armi all’occupazione violenta della loro città. Nel film Juliano racconta il suo rientro al campo durante l’intifada, alcuni anni dopo la morte della madre, il suo incontro con le famiglie dei ragazzi morti come “martiri” e con i giovani rimasti in vita e che hanno visto morire i loro amici.
E’ un film documentario da vedere, difficile non provare una profonda commozione e ammirazione per Arna, questa donna guerriera di pace. – Se vi interessa vedere il film cari amici che leggete il blog, sappiate che Pablita ne ha una copia!-
Oggi Juliano e i suoi collaboratori proseguono il progetto di educazione alternativa e creativa ed è davvero incredibile veder cosa hanno saputo realizzare in tre anni in questo piccolo campo profughi.
Non so dirvi bene perché, ma a me questo posto è piaciuto tanto, nonostante le case distrutte, i manifesti dei martiri dappertutto, il vento troppo caldo. Sarà stato il freedom theatre, le persone che ci lavoravano, le donne che mi sorridevano, sarà che in centro a Jenin ho mangiato il miglior hummus e i migliori falafel del mio viaggio…fatto sta che in questa piccola Jenin avevo l’impressione che avrei potuto fermarmi direttamente per tre mesi.
Siamo partite invece verso Nablus (mappa) nel primo pomeriggio. Ed è incredibile come ognuno ha diverse percezioni dei luoghi e delle atmosfere. Quanto mi piaceva Jenin tanto mi intristiva Nablus. Alle altre ragazze queste due città hanno fatto l’impressione opposta: triste, carica di morte Jenin, allegra e vitale Nablus.
Bello il viaggio verso Nablus, tra villaggi e olivi e musica araba alternata a musica israeliana.
Eh, si, ai palestinesi piace molto la musica israeliana.
Il taxista ci ha portato direttamente alla sede di “Project Hope”, dove abbiamo incontrato Marouf, referente per i volontari internazionali e marito di Sabrina, giovane italiana che, pensate un po’ il destino (!!), avevamo conosciuto il giorno prima al freedom theatre. Project Hope propone attività per bambini e giovani palestinesi in prevalenza nei campi profughi, lezioni di inglese, di arabo, percorsi di espressione artistica, ma anche sostegno ai contadini palestinesi che raccolgono l’oliva, che anche qui sono vittima di frequenti aggressioni e furti da parte dei coloni. Inoltre sostengono il commercio equo e solidale di diversi prodotti quali sapone, olio, tisane, artigianato.
Un’ora più tardi abbiamo incontrato Tamer, amico di Pabli e volontario al Project Hope, che ci ha accompagnato a visitare una piccola scuola di circo e a mangiare il famoso Kanaffa, un dolce a base di formaggio fresco e molto apprezzato a Nablus. Abbiamo visto parte della città vecchia e siamo finite al bagno turco, il più antico della regione.
Notte al Yasmeen Hotel e alla mattina presto pronte per andare a Qualquilia, a venti minuti dop il check point, una cittadina contornata dal muro del 2004. Non siamo delle writers, ma ci siamo impegnate per lasciare un segno, anche noi. Ultime ore con le nostre amiche indiane, le nostre bellissime Timira e Ami. Nel pomeriggio sarebbero partite per Gerusalemme, un viaggio lungo, tre tappe, diversi check point, zainoni carichi di saponette, tisane, e olio di oliva comprati a project hope.
Siamo rientrate insieme a Nablus, è stata una giornata in cui abbiamo sentito diverse ambulanze e ai lati dei campi di olivi abbiamo visto numerose camionette israeliane con la funzione di difendere i contadini dai coloni israeliani. Assurdo, ah?!
Abbracciate le nostre amiche, Pablita ed io abbiamo girato per la città a vedere e fare foto.
Nablus è piena di bambini, nel suq si trova di tutto, la città è tappezzata di manifesti di martiri, ci sono anche tabelloni illuminati come i nostri tabelloni del cinema, ma al posto del film c’è il ritratto di giovani martiri con i fucili in mano.
La sera stiamo all’hotel che è anche un bel ritrovo, di giorno degli studenti e studentesse di Nablus, bellissime con il loro velo e gli occhi truccati, fumano il nargilè con grazia e ci guardano con occhi curiosi.
La sera non ci sono più studenti, solo gli internazionali, i volontari di Project Hope e “turisti” come noi si incontrano a cena. E alle undici si va a casa, non si gira la sera per la città, ci sono soldati in giro che sparano per aria o alle finestre.
Venerdì 17 (!) è il giorno della partenza. E’ una bella giornata di sole, vogliamo essere a Tel Aviv alle 11.00 e alle otto e dieci siamo già in viaggio. Il taxista è simpatico. La sua ditta ha accordi con una ditta israeliana e quindi ci accompagna fino a un paesino dove cambiamo taxi e la targa adesso è israeliana. All’aereoporto ci interrogano per bene, ma noi siamo pronte. Parliamo poco poco inglese, siamo state a Gerusalemme, Betlemme e sul Mar Morto. Le domande sono varie: qual è la “connection” tra noi? Sorelle, amiche? Qual è il “purpose” del nostro viaggio? Turismo. Abbiamo fatto volunteer work? Abbiamo conosciuto qualcuno? Qualcuno ci invitato in casa? Qualcuno ci ha invitato a cena, a bere il caffè? Qualcuno ci ha regalato qualcosa? No, no, no.
Ci mettono un bel bollino con il numero 5 e passiamo al controllo dei bagagli. Comunque non siamo le uniche, tutti vengono cordialmente controllati da cima a fondo. E lo stesso poi a Roma e a Verona, ultimo controllo. Avete qualcosa da dichiarare?
Niente.
Siamo arrivate, basta controlli, possiamo metter via il passaporto per un pochino e pian piano digerire questa forte esperienza, al suono dei cd che ci siamo comprate in aeroporto a Tel Aviv.
Un po’ di rock e un po’ di musica tradizionale, sia israeliana che araba. Purtroppo, non l’abbiamo trovato del buon rock palestinese.
E’ tutto per ora dai Territori Palestinesi. Lasciamo la parola ai nostri amici in India.