il cuore malato di hebron

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Oggi è il 12 ottobre, domenica. I bambini vanno a scuola. Continua a sembrarmi un po’ strana questa cosa e comunque ho perso un po’ la cognizione del tempo stando qui queste due settimane.

Il tempo è volato, denso.

Siamo alla fine del progetto, domani verranno esposti i lavori fotografici, i genitori, i ragazzi, i volontari e anche i ragazzi che abbiamo conosciuto nella old town sono invitati a questo momento insieme. Oltre alle foto, ci saranno giochi e i ragazzi che hanno “studiato” monociclo e giocoleria potranno mostrare i loro progressi .

Sarà un momento importante.

Si stanno susseguendo i momenti importanti in questi giorni.

Venerdì siamo stati a Betlemme con il gruppo della fotografia, abbiamo visitato il centro della città e il campo profughi “Aida Camp”. Per molti dei “nostri” ragazzi era la prima volta che visitavano un campo profughi (!)  e alcuni non avevano mai visto il muro di divisione tra territori palestinesi e insediamenti. E’ molto diverso l’Aida Campo di Betlemme rispetto all’Al Arov Camp vicino a Hebron. Trovandosi a Betlemme la gente è abituata a vedere “estranei” e “stranieri”, quindi non abbiamo avuto l’orda di bambini che ci seguiva per le stradine e in alcuni casi abbiamo anche sentito la diffidenza da parte degli abitanti del campo. Alcuni rifiutavano categoricamente di farsi fotografare. “Fanno le foto ai bambini, dicono che raccolgono i soldi per la povera gente in Palestina e invece li rubano!” ci ha detto un signore anziano davanti alla porta di casa. Altri ci hanno fatto il caffè e si sono fatti fotografare con tutta la famiglia. I nostri “fotografi in erba” hanno lavorato con attenzione e entusiasmo, Timi e Paola sono molto orgogliose!

 

Ieri la giornata era dedicata alla old town. Nelle uscite precedenti ci eravamo accorti che i ragazzi del club non conoscevano davvero la realtà della città vecchia, abbiamo pensato che per raccontarla da dentro avevano bisogno di una guida del posto. Perché non chiedere ai bambini e i ragazzi che ci abitano di accompagnare i nostri giovani fotografi? Di  raccontarci la storia delle loro vite tramite i luoghi per loro significativi. Era anche un modo per creare legami tra ragazzi di quartieri diversi, tra due mondi nella stessa città.

Così per un  giorno “fun and games” (giochi e divertimento) si è trasferito nei giardini pubblici della old town, con una bella delegazione di bambini del club, Gianni e Diego con i loro monocicli, Timi e Pabli con le macchine fotografiche, Ami con la videocamera e diversi volontari del  centro. Alcuni bambini non erano mai stati nella città vecchia, lo si vedeva dai loro occhi. I genitori non li portano alla città vecchia, perché dovrebbero!? ci sono i check point, i soldati israeliani fanno le ronde, i ladruncoli e piccoli criminali ne fanno il loro quartiere essendo che la polizia palestinese non ci può entrare perché la zona è sotto controllo dell’esercito israeliano.

Eppure è il cuore della città e questo si sente, nonostante le tensioni, i blocchi, il mezzo abbandono, la città vecchia con la Abraham mosque rimane il cuore pulsante, seppure malato della città di Hebron. E alla cura del cuore malato di Hebron è dedicata “the old town week” che si svolgerà nell’ultima settimana di ottobre.

Ieri sera poi abbiamo ricevuto i ringraziamenti da parte del direttore del Palestinian Child’s Home Club con tanto di discorso ufficiale e targa del club da appendere in camera.

Oltre alla foto ricordo, ai dolcetti e alla fumata di arghilè finale, l’invito a sentire il Child’s Home Club come casa nostra e loro come la nostra famiglia. Shukran! Grazie!

 

campo profughi Al Aroub e monastero di Mar Saba

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Oggi era il nostro giorno “libero” nel senso che non eravamo impegnati nei laboratori al club.

Paola è andata dal dentista, poverina (!), e nonostante il dentista sembrasse una persona affidabile, ha deciso che forse era meglio occuparsi più approfonditamente del dente del giudizio, una volta tornata in Italia. Antibiotici, antidolorifici e via!


   

E’stata una giornata molto intensa, con immagini ed emozioni forti ed estremamente diverse tra loro. Abbiamo visitato il campo profughi di Al Aroub, a sud di Hebron. Un ammasso di case, stradine strette, negozietti, e bambini, tanti bambini, curiosi curiosi. Anche gli adulti in realtà non sembravano ricevere spesso visite, ci hanno salutato e ci hanno accompagnato dal “capo villaggio”, all’ufficio dell’ONU. C’era un cartello molto chiaro che indicava “niente armi” in questa zona con i muri e le ringhiere “azzurro UN”. Il referente dell’ONU, un palestinese di circa 45 anni, nato e cresciuto al campo ci ha spiegato che  circa 8 mila persone vivono su questo terreno di 1 km quadrato. Sono le famiglie  che dopo il 1948 hanno lasciato la loro casa e le loro terre perché dichiarate parte del nuovo stato di Israele. Negli anni hanno trasformate le tende in baracche e le baracche il case.  Non hanno i soldi per comprarsi un terreno da altre parti, o una casa in una città e quindi vivono qui in questo villaggio “obbligato” in zona B – C, il che significa che è territorio palestinese, ma sotto controllo israeliano e in parole povere quasi ogni notte i soldati israeliani fanno incursioni nei campi e spesso portano in carcere qualche ragazzino che durante il giorno avrebbe tirato loro i sassi. I campi profughi sono spesso presi di mira dai soldati, sono una terra di nessuno, di persone senza terra e senza protezione. E le Nazioni Unite. La stessa domanda facciamo noi. L’Onu offre alcuni servizi: scuola, ospedale, pulizia delle strade, – ci risponde il referente, ma altri diritti rimangono sulla carta.

Si aprono di nuovo molte domande nelle nostre testoline e si mostra la complessità di questa terra divisa.


 


Nelle stradine i bambini ci rincorrono. Gli adulti ci salutano, qualcuno ci invita a bere una thè e abbiamo la fortuna di entrare nella casa di F., una ragazza di 20 anni che studia geologia a Hebron, sono sette figli, i genitori sono nati a Al Aroub. La casa è piccola, pulita e le persone si trattano con una delicatezza e gentilezza che rivolgono anche a noi.


 


Usciamo dalla casa e usciamo dal campo. Proseguiamo verso Betlemme, dove incontraimo anche Majd e Ingeborg. Proseguiamo verso il monastero di Mar Saba e questo breve viaggio è una magia. Una sorta di deserto sassoso dai colori pastello ci appare oltre le case, due galline,  un  asino bianco, in fondo il Mar Morto.

Siamo stanchissimi adesso e “domani è un altro giorno”.

Breve anteprima: domani portiamo il gruppo di fotografia a Betlemme. Sabato le attività si spostano alla Old Town con giochi e foto. Domenica sera è prevista pasta al ragù al club, lunedì grande exposition dei lavori fotografici e corse motociclistiche. Martedì Diego e Gianni ripartono per l’Italia!


 

Vi segnaliamo questo articolo “Storie di bambini nel Campo Profughi di Al Aroub”
http://www.antennedipace.org/antennedipace/articoli/art_1036.html

Uscita fotografica

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Siamo rientrate a Hebron giuste giuste per l’appuntamento con i ragazzi del club. Oggi si esce a scattare foto, qualcuno le scatterà a casa, gli altri si dividono in tre gruppi e attraversano la città, fino alla città vecchia. E’ stato chiesto ai ragazzi di raccontare la loro città, la loro terra, approfondendo alcuni temi: le donne, gli uomini, la libertà. Ognuno poi ha sviluppato delle idee più specifiche: donne che lavorano, in ufficio, nell’artigianato, la zia  che ricama, la mamma che si occupa dei bambini, uomini che lavorano, che riposano, che vendono, che fumano l’argilè, e avanti così. Siamo tutti curiosi di vedere i loro scatti.

Il muro di Betlemme

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Questa mattina Pabli e Timira  si sono svegliate alle 7.30  per andare a Betlemme. Le ho sentite prepararsi “Andate a fare colazione?” “Andiamo a Betlemme, vuoi venire?” Un attimo di check up, sì, potevo farcela. E via!

E’ stata una mattina molto densa, piena di cose, colori e persone. Ho anche mangiato il mio primo falafel!

Siamo andate  visitare il muro, pieno di murales, colorati, seri, artistici, ironici. Il muro è proprio attaccato alla città, è parte della città e ne segna la fine allo stesso tempo. E’ molto strano immaginarsi quando l’hanno costruito. Pare che abbiano lavorato di notte e che lentamente la gente lo vedesse crescere. Majd ci raccontava l’altra sera che ogni venerdì  a Ramallah numerosi attivisti palestinesi, israeliani e internazionali si incontrano per dimostrare pacificamente contro il muro. Che sia l’inizio della fine come per il muro del Berlino?  Per ora si beccano abbondanti gas lacrimogeni.

Proprio a uno degli ingressi alla città Pabli ha incontrato un taxista che aveva conosciuto nel suo viaggio di aprile e ci siamo fatte accompagnare attraverso il campo profughi di Betlemme l’ “Aida Camp”.


  


Il muro che lo circonda è tutto dipinto e ogni sezione rappresenta una delle cittadine da cui provengono i profughi, all’entrata del campo c’è un ‘enorme chiave che pesa due tonnellate “ogni palestinese nel campo ha una chiave della sua vecchia casa nell’attuale Israele” spiega il taxista “ quella grande chiave rappresenta la speranza di poter tornare alla propria casa.” Le case sono tutte attaccate una all’altra, però sono case. La questione dei profughi a me non era per niente chiara. Mi immaginavo sempre che un campo profughi fosse una cosa momentanea, quindi tende, baracche, casotte, ma certamente non pensavo che esistessero nel mondo campi profughi che hanno 50 anni, con case di mattoni senza luce e senza il diritto di esistere e senza diritto di proprietà.

Scusate la mia ignoranza, ma a volte bisogna proprio buttarsi dentro una cosa per scoprirne la realtà. Le parole a volte si collegano al nostro immaginario e se questo non è nutrito dal reale, può fuorviarci.