Shanti Niketan School

  

L’India è in fermento. Ieri uno sciopero generale ha paralizzato Goa. Trovare un negozio, un bar o una pompa di benzina aperti era quasi impossibile. Ci siamo chiesti il perché di questa mobilitazione generale voluta dal governo e ci viene risposto che è una questione politica e religiosa. Giorni fa ignoti hanno bruciato un tempio hindu nel sud dello stato e da questo episodio è nato tutto il subbuglio.

Oggi è la città di Bombay ad essere ferma, ed è la seconda volta nel giro di dieci giorni. La settimana scorsa tutti i taxisti della capitale economica dell’India hanno incrociato le braccia per protestare contro la decisione del governo di eliminare dalla circolazione tutte le autovetture con più di vent’anni (… praticamente tutte!!!!) Oggi la causa della contestazione è la presenza in campagna elettorale di un partito politico fondamentalista che vorrebbe isolare il Maharastra (stato di Bombay) dal resto dell’India.

Tutto questo ha condizionato l’inizio delle prove del nuovo gruppo di ragazzi. Ieri infatti la scuola era deserta. Certo è, che quando gli indiani decidono di fare qualcosa, lo fanno in massa.

Oggi pomeriggio però tutto è pronto. Dai trampoli è stata tolta la muffa dovuta all’umidità, il materiale è stato controllato e la lista dei nuovi attori, preparata da El Shaddai, è pronta. Alle tre del pomeriggio le aule della scuola si svuotano e dopo circa trenta minuti Cronio (uno dei responsabili della scuola) ci avverte che il nuovo team di ragazzi è in arrivo. Noi rimaniamo li, immobili, ad osservare questa fila enorme di occhi scuri che ci viene incontro e il pensiero che ci sia stato un malinteso si insinua nella mente di ognuno di noi…  “accidenti se sono piccoli!!!” Avevamo chiesto dei ragazzi dai quattordici ai sedici anni e davanti a noi abbiamo molti bambini che di anni ne hanno dieci o undici. Non ci perdiamo d’animo, nonostante la confusione e lo smarrimento iniziale. Chiediamo a dei ragazzi presenti, ma che non fanno parte della lista, se sono interessati a partecipare e loro sembrano lì per questo, anche se nessuno li ha invitati.  Alla fine formiamo un gruppo misto con ragazzi di diverse età e tutti entusiasti di partecipare al progetto. Chiediamo subito se qualcuno sente di avere qualche dote acrobatica e dodici di loro improvvisano un piccolo show per esibire le proprie capacità.

Non rimane il tempo di fare altro. Due ore sono volate così. Salutiamo il nuovo gruppo di artisti, che sembra davvero ben assortito, dando il via all’avventura di quest’anno.

  

 

 

VICTORY HOUSE

 

L’ultimo giorno di riposo prima di iniziare il progetto inizia in modo tranquillo per non dire sornione. Decidiamo quindi di far vedere a Giacomo Calangutte e Baga, le due spiagge più famose e frequentate di Goa. Da domani si lavorerà duro e ci sembra un’ottima idea. Ci basta la prima spiaggia per cambiare idea …a Baga non ci arriveremo mai… Il caldo anche di domenica non fa sconti ed eccoci li a camminare sotto un’afa insopportabile, tra il traffico, gli shopping e i turisti (tanti, tantissimi, per ora solo indiani). Sonia ha un calo di zuccheri e va subito in crisi depressiva: Per tirarla su la portiamo in un bar a bere qualcosa… Nessuna reazione. Niente da fare. Facciamo un breefing volante a lato della strada e tutti concordiamo che, per dare un giro di ruota alla giornata che sta prendendo una piega deprimente, dobbiamo rivedere i nostri ragazzi dei centri.

 

Via dunque verso la Victory House di Saligao. Arriviamo e troviamo gli adolescenti tutti all’aperto. Alcuni giocano a pallavolo, altri a calcio e a cricket. Tra loro rincontriamo numerosi attori dello spettacolo dell’anno scorso. Presentiamo Giacomo, salutiamo Mattew Currian, uno dei fondatori di El Shaddai, conversiamo con Pandu, James e tanti altri.

A un certo punto il pomeriggio si fa movimentato.

Giacomo improvvisa un workshop di fotografia con Maruti (il piccolo protagonista di “Fantasia 2007), il quale si impossessa della sua digitale e inizia il suo personale reportage. Dopo qualche minuto Sonia sparisce seguita da Erica. La prima si avvia verso un campo da basket largo due metri e lungo tre e diventa la capitana di una delle due squadre che si dovranno affrontare. Ha inizio l’incontro e, vista la foga, la determinazione e l’agonismo dei partecipanti, sembra di assistere alla partita del secolo, la partita della vita, la finale di un campionato mondiale. La seconda si intrufola, sperando di non essere notata, nel match di calcio in corso, correndo avanti e indietro come un’ossessa, giocando con tutti e contro di tutti allo stesso tempo……… Alle dieci di sera ancora di chiede di quale squadra facesse parte!!!

 

 

Uno sguardo fresco

Ecco due esempi di fotoracconto creati dai ragazzi palestinesi durante il workshop di fotografia curato dalle nostre instancabili amiche.

La prima è una fotostoria in tre istantanee raccontata da un ragazzo di nome Basel, 15 anni:

Sopra i tetti di Hebron

In un campo profughi

Luce e ombra

Ed ecco il fotoracconto del secondo autore, Raneen, una ragazza di 14 anni:

Giochiamo a nascondino

Amici nemici

Untitled

Ultime dai territori palestinesi

Hebron: mercoledì 15 ottobre
Abbiamo dormito nella bella foresteria del freedom theatre, il progetto ci ha lasciato a bocca aperta per l’organizzazione, la cura degli spazi, il carisma e la fiducia del fondatore Juliano e dei suoi collaboratori. La sera ci siamo viste “Arna and her children”, il film girato da Juliano sulla storia di sua madre e dei bambini che con lei avevano fatto teatro nello stone thaetre al campo profughi di Jenin. Bambini che hanno vissuto l’occupazione, le case distrutte da un giorno all’altro, la rabbia, la desolazione, tra loro l’amicizia e la gioia e lo stupore di incontrare una donna di origina ebraica che lavorava con loro e per loro. Bambini diventati giovani adulti costretti a resistere con o senza armi all’occupazione violenta della loro città. Nel film Juliano racconta il suo rientro al campo durante l’intifada, alcuni anni dopo la morte della madre, il suo incontro con le famiglie dei ragazzi morti come “martiri” e con i giovani rimasti in vita e che hanno visto morire i loro amici.
E’ un film documentario da vedere, difficile non provare una profonda commozione e ammirazione per Arna, questa donna guerriera di pace. – Se vi interessa vedere il film cari amici che leggete il blog, sappiate che Pablita ne ha una copia!-

www.voices.ps (youth website)
 
Oggi Juliano e i suoi collaboratori proseguono il progetto di educazione alternativa e creativa ed è davvero incredibile veder cosa hanno saputo realizzare in tre anni in questo piccolo campo profughi.
Non so dirvi bene perché, ma a me questo posto è piaciuto tanto, nonostante le case distrutte, i manifesti dei martiri dappertutto, il vento troppo caldo. Sarà stato il freedom theatre, le persone che ci lavoravano, le donne che mi sorridevano, sarà che in centro a Jenin ho mangiato il miglior hummus e i migliori falafel del mio viaggio…fatto sta che in questa piccola Jenin avevo l’impressione che avrei potuto fermarmi direttamente per tre mesi.
Siamo partite invece verso Nablus (mappa) nel primo pomeriggio. Ed è incredibile come ognuno ha diverse percezioni dei luoghi e delle atmosfere. Quanto mi piaceva Jenin tanto mi intristiva Nablus. Alle altre ragazze queste due città hanno fatto l’impressione opposta: triste, carica di morte Jenin, allegra e vitale Nablus.
Bello il viaggio verso Nablus, tra villaggi e olivi e musica araba alternata a musica israeliana.
Eh, si, ai palestinesi piace molto la musica israeliana.
Il taxista ci ha portato direttamente alla sede di “Project Hope”, dove abbiamo incontrato Marouf, referente per i volontari internazionali e marito di Sabrina, giovane italiana che, pensate un po’ il destino (!!), avevamo conosciuto il giorno prima al freedom theatre. Project Hope propone attività per bambini e giovani palestinesi in prevalenza nei campi profughi, lezioni di inglese, di arabo, percorsi di espressione artistica, ma anche sostegno ai contadini palestinesi che raccolgono l’oliva, che anche qui sono vittima di frequenti aggressioni e furti da parte dei coloni. Inoltre sostengono il commercio equo e solidale di diversi prodotti quali sapone, olio, tisane, artigianato.

 

 
Un’ora più tardi abbiamo incontrato Tamer, amico di Pabli e volontario al Project Hope, che ci ha accompagnato a visitare una piccola scuola di circo e a mangiare il famoso Kanaffa, un dolce a base di formaggio fresco e molto apprezzato a Nablus. Abbiamo visto parte della città vecchia e siamo finite al bagno turco, il più antico della regione.

 

Notte al Yasmeen Hotel e alla mattina presto pronte per andare a Qualquilia, a venti minuti dop il check point, una cittadina contornata dal muro del 2004. Non siamo delle writers, ma ci siamo impegnate per lasciare un segno, anche noi. Ultime ore con le nostre amiche indiane, le nostre bellissime Timira e Ami. Nel pomeriggio sarebbero partite per Gerusalemme, un viaggio lungo, tre tappe, diversi check point, zainoni carichi di saponette, tisane, e olio di oliva comprati a project hope.
Siamo rientrate insieme a Nablus, è stata una giornata in cui abbiamo sentito diverse ambulanze e ai lati dei campi di olivi abbiamo visto numerose camionette israeliane con la funzione di difendere i contadini dai coloni israeliani. Assurdo, ah?!
Abbracciate le nostre amiche, Pablita ed io abbiamo girato per la città a vedere e fare foto.
Nablus è piena di bambini, nel suq si trova di tutto, la città è tappezzata di manifesti di martiri, ci sono anche tabelloni illuminati come i nostri tabelloni del cinema, ma al posto del film c’è il ritratto di giovani martiri con i fucili in mano.
La sera stiamo all’hotel che è anche un bel ritrovo, di giorno degli studenti e studentesse di Nablus, bellissime con il loro velo e gli occhi truccati, fumano il nargilè con grazia e ci guardano con occhi curiosi.
La sera non ci sono più studenti, solo gli internazionali, i volontari di Project Hope e “turisti” come noi si incontrano a cena. E alle undici si va a casa, non si gira la sera per la città, ci sono soldati in giro che sparano per aria o alle finestre.

Venerdì 17 (!) è il giorno della partenza. E’ una bella giornata di sole, vogliamo essere a Tel Aviv alle 11.00 e alle otto e dieci siamo già in viaggio. Il taxista è simpatico. La sua ditta ha accordi con una ditta israeliana e quindi ci accompagna fino a un paesino dove cambiamo taxi e la targa adesso è israeliana. All’aereoporto ci interrogano per bene, ma noi siamo pronte. Parliamo poco poco inglese, siamo state a Gerusalemme, Betlemme e sul Mar Morto. Le domande sono varie: qual è la “connection” tra noi? Sorelle, amiche? Qual è il “purpose” del nostro viaggio? Turismo. Abbiamo fatto volunteer work? Abbiamo conosciuto qualcuno? Qualcuno ci invitato in casa? Qualcuno ci ha invitato a cena, a bere il caffè? Qualcuno ci ha regalato qualcosa? No, no, no.
Ci mettono un bel bollino con il numero 5 e passiamo al controllo dei bagagli. Comunque non siamo le uniche, tutti vengono cordialmente controllati da cima a fondo. E lo stesso poi a Roma e a Verona, ultimo controllo. Avete qualcosa da dichiarare?
Niente.
Siamo arrivate, basta controlli, possiamo metter via il passaporto per un pochino e pian piano digerire questa forte esperienza, al suono dei cd che ci siamo comprate in aeroporto a Tel Aviv.
Un po’ di rock e un po’ di musica tradizionale, sia israeliana che araba. Purtroppo, non l’abbiamo trovato del buon rock palestinese.
E’ tutto per ora dai Territori Palestinesi. Lasciamo la parola ai nostri amici in India.

Officina del sorriso in India

Goa:

  

E’ una notte travagliata quella trascorsa sull’autobus che da Bombay ci porta a Goa.

Giacomo ha freddo per via dell’aria condizionata, Sonia ha caldo per via dello spiffero bollente che esce proprio a lato della sua cuccetta ed Erica ha caldo e freddo allo stesso tempo.

Il risultato è che dopo 12 ore di viaggio arriviamo stravolti a Mapusa, meta finale del nostro viaggio. Per fortuna El Shaddai manda un furgoncino con autista in soccorso ai poveri viandanti sommersi dal materiale. Questo fa risparmiare le energie necessarie per la contrattazione di un taxi. Giungiamo alla House of Kathleen dove utilizzeremo una delle stanze disponibili per qualche giorno come deposito. E’ l’occasione per incontrare i bambini più piccoli che guardano con curiosi ogni nostro movimento.

Alcuni ci riconoscono dall’anno scorso ma i più sono dei nuovi arrivati che ci vedono per la prima volta. Tutti però ci sorridono e questo è il più bel segno di benvenuto che potessimo sperare. Arrivati a Vagator prendiamo in un hotel un paio di stanze solo per qualche giorno per darci così il tempo di trovare con calma una sistemazione confortevole per il mese e mezzo che abbiamo davanti. Tra una casa e l’altra facciamo visita alla Shekinah House, il centro che raccoglie i maschietti dai sette ai dodici anni. Francis, l’educatore responsabile della casa, cordialissimo ci invita ad entrare.

Il tempo di fare due chiacchiere ed ecco che arrivano i ragazzi di ritorno dalla scuola. Una cinquantina, tutti con degli occhi che ti penetrano dentro. Qualcuno, memore dell’esperienza di due anni fa, inizia a camminare come un robot, altri chiedono di far parte del gruppo di quest’anno. Ci sediamo per terra e facciamo merenda con loro. Sono disposti su cinque file e ognuno di loro ha il suo posto sul pavimento. Ogni gruppo ha un colore e un leader che diventa il punto di riferimento per i compagni in caso di litigi e discussioni. Se non riesce a gestire una determinata situazione, il leader si rivolge ad altri due ragazzi super partes chiamati “capitani”, esterni ai vari gruppi.  Se il problema non viene risolto neanche da questi ultimi, interviene l’educatore. Facile no? Sono organizzatissimi e l’età media è di nove anni!!

Dopo la merenda tutti a giocare…. com’è giusto che sia!!