Il muro di Betlemme

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Questa mattina Pabli e Timira  si sono svegliate alle 7.30  per andare a Betlemme. Le ho sentite prepararsi “Andate a fare colazione?” “Andiamo a Betlemme, vuoi venire?” Un attimo di check up, sì, potevo farcela. E via!

E’ stata una mattina molto densa, piena di cose, colori e persone. Ho anche mangiato il mio primo falafel!

Siamo andate  visitare il muro, pieno di murales, colorati, seri, artistici, ironici. Il muro è proprio attaccato alla città, è parte della città e ne segna la fine allo stesso tempo. E’ molto strano immaginarsi quando l’hanno costruito. Pare che abbiano lavorato di notte e che lentamente la gente lo vedesse crescere. Majd ci raccontava l’altra sera che ogni venerdì  a Ramallah numerosi attivisti palestinesi, israeliani e internazionali si incontrano per dimostrare pacificamente contro il muro. Che sia l’inizio della fine come per il muro del Berlino?  Per ora si beccano abbondanti gas lacrimogeni.

Proprio a uno degli ingressi alla città Pabli ha incontrato un taxista che aveva conosciuto nel suo viaggio di aprile e ci siamo fatte accompagnare attraverso il campo profughi di Betlemme l’ “Aida Camp”.


  


Il muro che lo circonda è tutto dipinto e ogni sezione rappresenta una delle cittadine da cui provengono i profughi, all’entrata del campo c’è un ‘enorme chiave che pesa due tonnellate “ogni palestinese nel campo ha una chiave della sua vecchia casa nell’attuale Israele” spiega il taxista “ quella grande chiave rappresenta la speranza di poter tornare alla propria casa.” Le case sono tutte attaccate una all’altra, però sono case. La questione dei profughi a me non era per niente chiara. Mi immaginavo sempre che un campo profughi fosse una cosa momentanea, quindi tende, baracche, casotte, ma certamente non pensavo che esistessero nel mondo campi profughi che hanno 50 anni, con case di mattoni senza luce e senza il diritto di esistere e senza diritto di proprietà.

Scusate la mia ignoranza, ma a volte bisogna proprio buttarsi dentro una cosa per scoprirne la realtà. Le parole a volte si collegano al nostro immaginario e se questo non è nutrito dal reale, può fuorviarci.

Capra underground

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Domenica sera siamo stati invitati a una cena eccezionale, a  casa del nostro amico gelataio. E’ stata comprata una capra intera per festeggiare, comprata, fatta macellare e preparata in pezzetti incarta stagnola con le spezie, cucinata in un forno “underground”… Un Boyeler con apertura, che ha permesso di ospitare le braci e la carne. Prima si sono preparate le braci con legna secca, dopo si è messa la carne e in fine si è coperto il forno con la terra, 5 ore di cottura lenta: La carne era buonissima e molto morbida, da  leccarsi le dita.




Si tratta di un modo speciale che qui usano solo per le feste. Anche Pabli ha avuto la sua ciotolina di verdure cotte sotto terra.

mi daresti metà dei tuoi occhiali?

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da destra: majd (palestina), gianni (italia), ingeborg (danimarca), pabli (italia), timira (india), diego e mirta (italia)

La sera siamo stati a Bethlehem con la amica palestinese di Paola.  Majd ha 23 anni, vive tra Hebron, Betlemme e il mondo: ha studiato relazioni internazionali e lavora come coordinatrice degli  scambi internazionali giovanili per IPYL, è spesso invitata a seminari internazionali in cui è chiamata a rappresentare la realtà palestinese. Per arrivare a Betlemme – sono circa 30 km – prendiamo un taxi bus da 7 persone. Il viaggio è lungo, il taxista guida come un pazzo, su e giu’ per le stradine, evitando donne e bambini, si ferma a prendere sua sorella, fa una deviazione per parlare con un suo collega e poi riparte. Durante il tragitto Majd ci mostra i campi profughi e i “settlements”, gli insediamenti dei coloni israeliani, le strade per palestinesi, le strade per soldati, le strade per israeliani, quelle dove i palestinesi possono passare in auto, ma non a piedi. A Betlemme andiamo in un centro culturale molto bello che si chiama ADAL che ospita volontari internazionali, ha un bar, una sala cine dove proiettano ogni sabato un film di informazione.

 Mangiamo insieme in un locale che Majd chiama “my secret place”, dove si incontra spesso con amici e dove può connettersi liberamente a internet e fare il suo lavoro al pc. Si mangia si scherza, Diego e Majd finiscono per giocare a braccio di ferro in nome della libertà  di mettere il ketchup sugli spaghetti alla bolognese. Majd è una delle poche ragazze che a Hebron porta i capelli sciolti senza il velo e alla mia domanda se abbia mai avuto problemi per questo, mi bacchetta. “No, che problemi dovrei avere!? Il copricapo è una scelta, nessuno è obbligato, le donne scelgono di coprirsi. E voi stranieri dovreste smetterla di arrivare qui e voler cambiare la nostra cultura. IL copricapo non è un problema per le donne della Palestina. L’occupazione è un problema, le strade chiuse. L’acqua è un problema.”

Poi Majd guarda Diego e gli dice “scusa, mi daresti metà dei tuoi occhiali che mi servono?” e al suo no, “beh, allora me li prendo interi”. Questo è quello che è successo con la nostra terra dice Majd. E la discussione prosegue parlando delle grandi religioni monoteistiche e di come la parola “terrorismo” venga erroneamente collegata a islam. “Perchè quando capi di stato di paesi di cultura cattolica o ebraica, utilizzano la religione per sostenere le loro aggressioni  “terroristiche” non si dice allo stesso modo che il cristianesimo e l’ebraismo sono terrorismo? Come è possibile che il papa, con il suo ruolo, abbia potuto esprimersi categoricamente  e senza rispetto sull’islam? L’islam rispetta tutti i profeti e mai si esprimerebbe con disprezzo verso Gesù, come possono gli europei prendere in giro Maometto?

Ce l’eravamo dimenticata quella delle vignette delle magliette…ma qui non se la dimenticano e mi sa che la conoscono la nostra storia, meglio sicuramente di quanto noi conosciamo la loro.

Majd e Ingebolt rimangono a Betlemme dove hanno un appartamento insieme ad una ragazza italiana, noi torniamo in taxi. Le strade sono buie, le luci che si vedono sono gli insediamenti, arriviamo all’entrata per Hebron. La strada è sbarrata. ? c’è un’altra strada ci dice il taxista, sono 8 km in più. Perché è chiusa? A volte i soldati la chiudono.

monociclo e giocoleria


Qui Gianni che racconta la sua esperienza di Teacher di monociclo.

"Trovarsi di fronte a dei ragazzi nuovi che vogliono provare il monociclo  è sempre bello, vedere i loro sguardi pieni di entusiasmo e di voglia di fare fa sempre crescere in me la passione che ho per questo sport.

Il primo giorno che mi sono trovato con loro ero molto nervoso, sentivo le aspettative loro e dei miei amici di viaggio e la lingua (non l’arabo ma l’inglese) come ben sapete non è il mio forte anzi, comunque alla fine le cose sono andate e nonostante la lingua io e Diego ci siamo fatti capire.

E’ uno sport un po’ strano quello del monociclo, vedere gli altri che vanno sembra sempre molto più semplice di quello che ci si aspetta e spesso e volentieri non ci si rende conto della fatica che si fa a intraprenderlo dall’inizio.

Il gruppo che ha iniziato con me monociclo ha dato i  suoi primi risultati ieri, per ora ci sono solo 4 ragazzi che persistono continuamente a provare e riprovare.
Ieri come dicevo 4 ragazzi hanno fatto le loro prime pedalate senza sostegni di nessun tipo, se non nella partenza.
Alla fine della giornata si poteva vedere la felicità di ognuno di loro".

Diego si occupa del laboratorio di giocoleria.
Ieri non aveva il traduttore dall’inglese all’arabo e ha quindi lavorato senza parole, solo mostrando i movimenti e con le espressioni del viso. Entusiasmante!

fotografia


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5 ottobre: ieri il gruppo di fotografia e’ andato a visitare la città vecchia e a scattare le prime foto. hanno 15 macchine fotografiche con rullino da 24.

oggi proseguono il laboratorio discutendo sulle loro impressioni, cosa gli piace della citta’ vecchia, cosa non gli piace, quali sono le differenze tra qui e la’. e’ incredibile, ma effettivamente a 2 km di distanza la vita cambia totalmente, niente macchine, le persone vestono abiti tradizionali, i bambini spesso non vanno a scuola, cominciano a lavorare presto, non ci sono regole, non ci sono i segnali stradali, non c’e’ la polizia, invece ci sono i soldati, i check point, le reti, i coloni che gettano le immondizie dalle finestre.


 

Hanno discusso a lungo ieri sera Pabli e Timira sul tema da proporre ai ragazzi per le loro foto. Pensavamo di trovare una realta’ immersa nella poverta’ e nel dramma dell’occupazione, ma come dicevamo bastano due kilometri e la situazione cambia totalmente. Anche se pochi anni fa hanno vissuto il coprifuoco e molte case sono state distrutte dagli israeliani, anche se sanno che la palestina e’ occupata, qui nel loro quartiere si sentono liberi, non ci sono i soldati che li guardano dall’alto, non ci sono i check point, ognuno ha la sua casa, la macchina, vestono moderno, hanno il telefonino, la tv satellitare. "e’ un momento di tranquillita’"dice Khaled, "da un momento all’altro potrebbe cambiare: coprifuoco, strade chiuse!"

Molti dei ragazzi piu’ grandi, per esempio Adham di 17 anni che ci fa da traduttore e parla inglese meglio di me, sono gia’ stati in giro per il mondo, tramite l’associazione, il Palestinian Child’s Home Club. E’ stato in America, in Francia, in Georgia, in Israele.

Insomma anche qui si vive il contrasto delle civilta’ moderne.